Perché i più sofferenti siano serviti per primi, sono necessari dei volontari. Non saranno mai numerosi, ma la loro azione costituirà un segno e un interrogativo per tutti.

Perché i più sofferenti siano serviti per primi, è necessario che tutta la società, a partire dal proprio ambiente fino a raggiungere il mondo intero, sia continuamente spronata non da costrizioni esteriori di chi detiene il potere, ma per contagio dall'interno, dalla sfida di un piccolo gruppo formato sia da chi è stanco di aver troppo sia da chi è stanco di mancare di tutto, unito in un lavoro comunitario che ne assicura la vita, mentre pone quello che guadagna al servizio dei sofferenti, acquisendo così il diritto di poter dire a chiunque, in qualsiasi momento: «E tu che cosa fai, come persona e come cittadino, per chi soffre?»...

 L'unica grande malattia delle società moderne è il disprezzo dei sofferenti. L'anarchia, la tirannia, la corruzione, l'abbandono, l'aggressione trovano la loro radice in questo: i forti idolatrano se stessi e disprezzano e sfruttano i deboli, i quali disperati si sollevano e, non appena riescono ad impadronirsi del potere, si trasformano a loro volta in carnefici. Per cui non ci si dovrà mai stancare di ripetere la legge di ogni convivenza e di ogni crescita: «Servi per primo il più sofferente», il che equivale a «ama il prossimo tuo come te stesso». La storia umana tende continuamente a sottrarsi a questa sua legge e attraversa così momenti di grande parossismo e di forti incoerenze. Allora non servono più né riforme né rivoluzioni, ma occorre una vera e propria rinascita.

Rinascere, ripartire dalla sorgente, disfarsi del guazzabuglio delle convenzioni in cui si nasconde tanta falsità. Ma rinascere non è atto di massa, ma di singole persone, che si pongono, fragili e sole, davanti a se stesse e all'eterno amore, cercando di rispondere all'appello universale di questo amore che è Persona e che richiede la libera, assoluta adesione di alcuni per poter realizzare l'unità di tutti, ad esclusione soltanto di coloro che, accecati dal loro orgoglio, preferiscono deliberatamente ostinarsi nell'illusione del loro io piuttosto che abbandonarsi alla comunione del dono di se stessi. Sempre, ma più che mai in questo tempo di crisi violente a livello planetario, è nel misterioso santuario dell'anima di alcuni che si gioca, ogni giorno, il destino delle moltitudini; nell'anima di quanti, uomini e donne, ascoltano l'appello e che sanno dire: «Eccomi», di colpo o per gradi, per un determinato periodo di tempo o per tutta la vita.

Per quale genere di vita? Anzitutto, debbono essere disposti ad assolvere qualsiasi compito necessario alla vita della comunità in un determinato momento, ricercando, secondo le attitudini di ognuno, il miglior servizio comune. E questo senza romanticismi e infatuazioni, sapendo fin dall'inizio che non sarà facile, che si dovrà passare per momenti in cui ci si sentirà stanchi di tutto, che bisognerà tener duro nonostante tutto e che, solo dopo aver superato ogni dubbio (dubbio che periodicamente ritornerà), si diventerà veri e fecondi; sapendo che bisognerà essere abbastanza padroni di se stessi per resistere all'inevitabile tentazione di vedere, a volte, tutto troppo bello e perfetto e, altre volte, tutto troppo nero e orribile, dimenticando che la realtà delle cose, e più ancora delle persone, è fatta di luce e di ombra, che si incastrano l'una nell'altra e si combattono fra di loro; e sapendo anche che a questi sforzi, e mano a mano che cresce il numero dei volontari, così da potersi meglio organizzare ed evitare lo stress fisico e morale, il ritmo dell'azione e della formazione procurerà una gioia più intensa di qualsiasi immaginabile sofferenza.

Se oggi, e solo nei paesi dove già esistono comunità Emmaus, si potessero trovare cento uomini disposti a dire: «Eccomi», come sarebbe più facile e più rapido compiere tutto quello che è iniziato con tanta sofferenza. Dipenderà dalla risposta che ognuno di voi, giovani soprattutto, darete a questo appello che vi è rivolto. (...)

È così che lentamente, per la sua strada segnata da tanti tentennamenti, prove, continui, duri e necessari ritorni allo spirito e ai metodi degli inizi, Emmaus porta sempre più lontano, nella città del mondo, il suo invito ad aprire gli occhi sulla verità primordiale che è quella della sofferenza degli uomini e il suo messaggio di vero entusiasmo e di volontà d'unione con l'Eterno e, attraverso di Lui e il suo amore, di unione del mondo intero in questa redenzione che comincia a realizzarsi non appena è riconosciuto, esplicitamente o implicitamente, in ogni uomo sofferente, spezzato, ingannato, il segno sacro dell'amore profanato, il segno nel quale ogni uomo, a seconda che si ponga a servire o si volga indietro, trova la sua salvezza o la sua perdizione, il segno nel quale trovano la loro vita o la loro morte tutte le civiltà.

Cercano di salvarsi salvando e la loro testimonianza scuote, risveglia e mobilita all'azione con nuova energia, molte più persone di quanto si pensi.

Se cento uomini in più, veramente capaci, decidessero di raggiungere quelli che sono già all'opera, fortificando il movimento, risoluti a servire ora che l'esperienza è stata fatta e che i centri di formazione sono stati costituiti, allora si potrebbe avere un nuovo fortissimo slancio. (...)

Volesse il cielo che questi cento uomini, capaci e risoluti, si associassero a noi senza indugio!

 

Giugno 1957