“Siamo tutti razzisti. Ma quando l'altro, lo straniero è povero, allora le relazioni con lui sono ancora più difficili.

E così alcuni lo ignorano;altri cercano di incontrarlo, ma non sanno poi come comportarsi; altri ancora si impegnano in una vera relazione e allora scoprono i lavoratori stranieri”.

Queste parole dell ’Abbé Pierre, sembrano scritte oggi. Risalgono invece al maggio ’95 nell’editoriale della rivista Faims & Soifs da lui stesso curata.

"Siamo sinceri! Chi, in un modo o in un altro, in questa o quell'occasione, non è razzista? Non fos s'altro che completamente contro la propria volontà e la propria ragione, non fos s'altro che soltanto per un riflesso imprevisto o un movimento interiore dominato e non apparso al di fuori..."

 E siamo ancora più sinceri! Quando lo «straniero», l'altro, colui che ha la stranezza di non avere le nostre sfumature della pelle o i nostri tratti del viso è anche povero, non è forse vero che sentiamo nascere dentro di noi una vera e propria avversione? A meno che non si tratti già di una sorda paura che si traduce poi molto presto in animosità.

Fra coloro che sono estranei al nostro gruppo, ci sono persone che non sono affatto povere, anzi che sono ricche o che occupano posti di responsabilità.

Noi bianchi, ormai da tempo abituati ad essere «fra noi» e a decidere di tutto nei grandi organismi internazionali, ci siamo trovati d'improvviso ad incontrare, e in numero sempre maggiore, «agli altri».

Se facciamo bene attenzione a noi stessi, in occasioni del genere, non ci può certo sfuggire il fatto che, di fronte a questi uomini di diverso colore e di altre fattezze, ma che sono ricchi o coprono posti di responsabilità, nasce spontaneamente in noi una certa avidità di conoscerli, una specie di sete di sapere quali siano i loro reali sentimenti e, ben presto, per poco che la loro scelta politica o ideologica si avvicini alla nostra, una vera e propria attrazione talvolta non esente da ingenuità.

Ma se sono poveri? Se l'incontro con volti di portoghesi, arabi, africani, asiatici o il mondo variopinto dei meticci non avviene negli alberghi di lusso, ma nelle vecchie stradine delle nostre città, nelle «pensioni» miserabili e sovraffollate e nelle bidonvilles, allora chi siamo?

Siamo sinceri. In questo caso non vorremmo essere lì.

Prescindendo da quei fanatici che sognano solo soprusi o brutalità, espulsioni o assassini - ma si tratta di persone che abitualmente non frequentano i luoghi di incontro - fra noi, «gente per bene» se così si può dire, si trovano tre tipi di persone.

Ci sono anzitutto «coloro che ignorano». Affrettano il passo. Hanno fretta di dimenticare. Soprattutto, che niente faccia loro pensare che «la cosa li riguarda».

Ci sono poi quelli che, al primo impatto, si sentono «a disagio», ma poi pensano a quanta sofferenza e miseria ci sia dietro il volto di un «immigrato»... E così vogliono «fare qualcosa», ma non sanno che cosa. Talvolta sanno solo dire un frettoloso buongiorno e rivolgere uno sguardo amichevole e un sorriso. Ebbene sappiano che ci sono momenti nella vita in cui si tratta di un dono veramente prezioso. Ma la loro buona volontà non dura e spesso commettono molti errori e incappano in tante disavventure, dal momento che «lo straniero» è come tutti, né peggiore né migliore degli altri, soltanto più desolato. E se, come ripeteva s. Vincenzo de' Paoli alle sue Figlie della Carità, «è difficile essere degni di servire coloro che soffrono», il candore, anche il più fervente, non può bastare per aiutare validamente il «lavoratore straniero» che è venuto ad abitare alla porta accanto. Infine, ci sono coloro che consacrano sforzi e tempo per imparare questo genere di bontà e le condizioni necessarie perché sia veramente efficace, immediata, e assicuri anche in seguito progressi continui, istituzionalizzati.

Non è possibile che tutti si specializzino in tutto. Importante è che fra noi, fra coloro, sempre numerosi, che dispongono di tempo libero, che non hanno una vita piena, siano sempre più nu­merosi quelli che si danno da fare per imparare le esigenze di questa particolare fraternità, alla scuola dei piccoli gruppi che hanno alle spalle una lunga esperienza. E che numerosi siano coloro che, pur dediti ad altri compiti, perlomeno li sostengano con i loro mezzi (anche se non è certamente questo il primo bisogno, si tratta comunque sempre di un bisogno reale, dato che i casi di estremo bisogno sono infiniti), ma soprattutto adoperandosi ad influenzare l'opinione pubblica e i pubblici poteri, partendo dal comune e dalla parrocchia fino ai legislatori.

Soprattutto nessuno di noi deve aspettare tempi migliori. Ci sono troppe sofferenze, sorde ma tragiche, su questi volti così stanchi.

Quante volte si sente dire: «Ma che cosa fanno qui? Perché non rientrano nei loro paesi?». Ecco un punto sul quale possiamo e dobbiamo darci da fare, in ogni occasione, per cambiare il modo di pensare e di parlare attorno a noi.

Che cosa fanno qui i lavoratori stranieri? Anche se è solo l'egoismo a riempire il cuore di chi non vorrebbe più vederli, costringiamo questo incosciente assurdo a rendersi conto di quello che sta dicendo. Costringiamolo a vedere tutti i lavori manuali ingrati che pochissimi, da noi, accettano ancora di svolgere e senza i quali il carbone mancherebbe, i lavori sulle strade sarebbero ancor più in ritardo e tanti altri conforts di noi privilegiati sarebbero compromessi.

Che cosa fanno qui? Ci permettono semplicemente di poter disporre di quello che costituisce il nostro orgoglio. Sappiamo almeno non essere ingrati.

Ma quello che fanno qui, è ben più importante! Essi lottano, spesso con privazioni incredibili per i nostri cuori di bambini viziati, perché lontano di qui una sposa, dei bambini, dei genitori anziani possano semplicemente mangiare, vestirsi e vivere.

Non sono affatto dei santi, più perfetti degli altri, ma la quasi totalità di loro dà almeno questo esempio: l'esempio del compimento coraggioso del primo dei doveri: mettere le proprie forze al servizio dei membri più deboli della loro famiglia.

Facciamo in modo che, migliorando la loro qualifica professionale e l'alfabetizzazione, possano diventare presto capaci di portare un valido contributo al progresso tecnico del loro paese di origine. Con tutto il peso del nostro impegno politico, facciamo in modo che serie iniziative di assistenza fra gli stati più ‘sviluppati’ e quelli ‘meno sviluppati’ rendano possibile nei loro paesi d'origine la piena occupazione, dato che l'automazione ben presto renderà superflua qui da noi la loro mano d'opera.

Facciamo in modo infine che loro e i loro paesi d'origine possano essere meno poveri, dato che è proprio la loro miseria che ci rende più difficile l’amarli.

Il problema dei lavoratori stranieri è tutto qui. È, in ultima analisi, il problema della nostra onestà di uomini. E se noi non fossimo capaci di questo sforzo immediato, perseverante ed efficace, allora non sarebbe più giusto continuare a fregiarci del nome di uomini. Saremmo più vicini alle bestie che si divorano fra loro.

E ancor meno avremmo diritto di sperare di essere riconosciuti come Suoi figli dall’Eterno Amore, dal Padre Unico e Universale, nel quale nasce per noi tutti, con la vera dignità, la vocazione alla fraternità, per la terra come per il cielo.

Abbé Pierre